IV Domenica di Pasqua

Non riesco a comprendere come si possa non aver fiducia in Colui che può tutto. Con Lui tutto, senza di Lui nulla. Egli, il Signore, non permetterà né lascerà che restino confusi coloro che hanno posto in Lui tutta la loro fiducia (Diario, 358).

Il brano che la Chiesa ci presenta per la IV domenica di Pasqua è tratto ogni anno dal capitolo 10 del vangelo di Giovanni e ci presenta Gesù come il Buon Pastore. Per l’anno B ci viene proposta la parte centrale del capitolo (11-18), in cui si afferma che il Buon Pastore offre la vita per le sue pecore e le conosce. Il discorso è arricchito anche dal raffronto tra il Pastore e il Padre e il Pastore e le sue pecore. Quello del pastore è un tema molto ricorrente nell’Antico Testamento. L’immagine viene associata a Dio o alle guide del popolo (re, sacerdoti, profeti) che come pastori si prendono cura di Israele.

Il capitolo 10 segue quello dedicato al cieco nato (9). I due temi del pastore e della luce risultano così legati tra di loro. In questi due capitoli si può leggere infatti in filigrana la critica di Giovanni nei confronti dei pastori di Israele (capi e sacerdoti) che non hanno saputo prendersi cura del popolo di Dio. Ad essi si contrappone Gesù che è il Buon Pastore per eccellenza. Gesù afferma di essere Pastore aggiungendo l’aggettivo buono, aggettivo che può anche dire “bello”; buono e bello è ciò che Dio ha creato perché immagine della sua bontà e della sua bellezza, frutto del suo amore di Padre. Questo aggettivo esprime proprio la profondità dell’amore del Padre che in Gesù si manifesta perché dà, o meglio depone la propria vita. Ritroviamo questo verbo durante il racconto dell’ultima cena quando Gesù depone le vesti per lavare i piedi dei discepoli, o quando offre il boccone a Giuda. Gesù depone la vita: è l’atto supremo della sua relazione con le pecore, al contrario del mercenari a cui non importa nulla. Gesù è il pastore bello, perché conosce le sue pecore, questo è il senso della sua relazione che è anche la relazione con il Padre. Non si esprime un paragone tra due relazioni diverse ma è la stessa relazione che coinvolge il Padre e il Figlio e coinvolge anche l’umanità. Questa relazione è indicata con il termine conoscere, parola molto lontana dal senso di reciprocità indicata dalla nostra cultura occidentale che afferma una conoscenza anche a livelli di superficialità. Il termine conoscere indica la profondità della relazione intima sponsale che tende a fare di due una cosa sola. Mistero di reciproca intimità quindi, che lega pastore e gregge. “Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Un’amicizia che è prolungamento dello stesso rapporto di comunione che intercorre tra il Figlio e il Padre, “così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Dove il conoscere è condivisione di vita, già da oggi nella vita di grazia, e domani nella vita di gloria con la beata Trinità del cielo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).”E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare”. L’amore di Dio è universale: “Vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). La missione di Gesù mira a scavalcare limiti di tempo e spazio, “fino ai confini della terra” (At 1,8); “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questo ha istituito la Chiesa come suo prolungamento: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il sogno di Cristo è raccogliere in unità tutti gli uomini nella famiglia di Dio: “Diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Mistero di comunione è questo suo gregge, “perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi” (Gv 17,21). Così che alla fine “Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28).